Marcovaldo ovvero le stagioni in città riassunto

ITALO CALVINO – MARCOVALDO ovvero LE STAGIONI IN CITTÀ

RCS – Collana I GRANDI ROMANZI ITALIANI n.3 – 2003


Libro letto e riassunto a Milano dove, vittima dell’attacco di un gatto nero, Behemoth detto “Bem”, apparentemente un “angioletto”, la sovraccopertina è finita semisbranata dai di lui felini denti 😀 😀 😀

Marcovaldo ovvero le stagioni in città riassunto

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IL GHIACCIOLO E LA MARMELLATA
Di Gian Antonio Stella p.5

PRIMAVERA p.15

1 – FUNGHI IN CITTÀ p.15

Il manovale Marcovaldo scruta con sensibilità le rare manifestazioni della natura presente nella grigia città industriale in cui vive e lavora presso la ditta SBAV. Una mattina di primavera, in attesa di prendere il tram, l’uomo si accorge della presenza di alcuni funghi cresciuti ai piedi degli alberi presenti nell’aiuola della fermata…

Un giorno, sulla striscia d’aiola d’un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.
Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.
Così un mattino, aspettando il tram che lo portava alla ditta Sbav dov’era uomo di fatica, notò qualcosa d’insolito presso la fermata, nella striscia di terra sterile e incrostata che segue l’alberatura del viale: in certi punti, al ceppo degli alberi, sembrava si gonfiassero bernoccoli che qua e là s’aprivano e lasciavano affiorare tondeggianti corpi sotterranei.
Si chinò a legarsi le scarpe e guardò meglio: erano funghi, veri funghi, che stavano spuntando proprio nel cuore della città ! A Marcovaldo parve che il mondo grigio e misero che lo circondava diventasse tutt’a un tratto generoso di ricchezze nascoste, e che dalla vita ci si potesse ancora aspettare qualcosa, oltre la paga oraria del salario contrattuale, la contingenza, gli assegni familiari e il caropane. (pp.15-16)

Il fatto lo rende al lavoro più distratto del solito, intento a meditare sulla loro crescita. Durante l’umile desinare ne parla alla moglie Domitilla e ai quattro figli, rifiutando però di rivelare loro l’ubicazione dell’aiuola per timore che qualcun altro possa coglierli, ivi incluso l’antipatico spazzino Amadigi…
La domenica mattina, dopo una notte di pioggia, eccolo precipitarsi con i figli a raccogliere i funghi, scoprendo che anche Amadigi è già in loco per lo stesso motivo, anzi scopritore di altri ceppi. Marcovaldo spande allora la voce tra i presenti e così… la sera si ritrovano tutti in ospedale per una bella lavanda gastrica per via della non commestibilità degli stessi… Marcovaldo e Amadigi si guardano in cagnesco dai rispettivi letti…

Ma si rividero presto, anzi la stessa sera, nella medesima corsia dell’ospedale, dopo la lavatura gastrica che li aveva tutti salvati dall’avvelenamento: non grave, perché la quantità di funghi mangiati da ciascuno era assai poca.
Marcovaldo e Amadigi avevano i letti vicini e si guardavano in cagnesco. (p.18)

ESTATE p.19

2 – LA VILLEGGIATURA IN PANCHINA p.19

In piena estate Marcovaldo decide di passare la notte sulla panchina appartata di un parco che attraversa tutti i giorni per recarsi al lavoro. Nei suoi sogni alienati la vede infatti come un paradiso, distante anni luce dall’umile appartamento che divide con moglie e figli…

Andando ogni mattino al suo lavoro, Marcovaldo passava sotto il verde d’una piazza alberata, un quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie. (p.18)
C’era, in un angolo della piazza, sotto una cupola d’ippocastani, una panchina appartata e seminascosta. E Marcovaldo l’aveva prescelta come sua. In quelle notti d’estate, quando nella camera in cui dormivano in cinque non riusciva a prendere sonno, sognava la panchina come un senza tetto può sognare il letto d’una reggia. (p.18)

Ma, giunto sul posto, trova la panchina occupata da una coppia di fidanzati intenti a litigare… Gira un po’ e solo dopo parecchio la panchina è finalmente libera. Ma l’incanto del momento è ormai svanito e, esaurito, il manovale non riesce a dormire per via del lampeggiare notturno di un semaforo…

Una notte, zitto, mentre la moglie russava ed i bambini scalciavano nel sonno, si levò dal letto, si vestì, prese sottobraccio il suo guanciale, uscì e andò alla piazza.
Là era il fresco e la pace. Già pregustava il contatto di quegli assi d’un legno – ne era certo – morbido e accogliente, in tutto preferibile al pesto materasso del suo letto; avrebbe guardato per un minuto le stelle e avrebbe chiuso gli occhi in un sonno riparatore d’ogni offesa della giornata.
Il fresco e la pace c’erano, ma non la panca libera. Vi sedevano due innamorati, guardandosi negli occhi. (pp.18-19)
Alla fine lui ammise, o lei, insomma Marcovaldo li vide alzarsi e andarsene tenendosi per mano.
Corse alla panchina, si buttò giù, ma intanto, nell’attesa, un po’ della dolcezza che s’aspettava di trovarvi non era più nella disposizione di sentirla, e anche il letto di casa non lo ricordava più così duro. (p.21)
Bisogna dire che in questi ultimi tempi Marcovaldo aveva un sistema nervoso in così cattivo stato che, nonostante fosse stanco morto, bastava una cosa da nulla, bastava si mettesse in testa che qualcosa gli dava fastidio, e lui non dormiva. E adesso gli dava fastidio quel semaforo che s’accendeva e si spegneva. Era laggiù, lontano, un occhio giallo che ammicca, solitario: non ci sarebbe stato da farci caso. Ma Marcovaldo doveva proprio essersi buscato un esaurimento: fissava quell’accendi e spegni e si ripeteva: «Come dormirei bene se non ci fosse quell’affare! Come dormirei bene!» (p.22)

Decide allora di coprirsi la visuale collocando una corona d’alloro sulla sciabola di un monumento lì presente, rischiando peraltro di essere sorpreso dal non troppo solerte vigile Tornaquinci… Allontanatosi l’operatore, si mette a osservare saldatori intenti a riparare le rotaie del tram e così, tornato alla panchina, non riesce ora ad addormentarsi per via del rumore che gli giunge alle orecchie…

Per lasciarlo allontanare, Marcovaldo rifece il giro della piazza. In una via vicina, una squadra d’operai stava aggiustando uno scambio alle rotaie del tram. […]
Ritornò alla panchina. Si sdraiò. Ora il semaforo era nascosto alla sua vista; poteva addormentarsi, finalmente.
Non aveva badato al rumore, prima. (p.23)
Basta cominciare a non accettare il proprio stato presente e chissamai dove s’arriva: ora Marcovaldo per dormire aveva bisogno d’un qualcosa che non sapeva bene neanche lui, neppure un silenzio vero e proprio gli sarebbe bastato più, ma un fondo di rumore più morbido del silenzio, un lieve vento che passa nel folto d’un sottobosco, o un mormorio d’acqua che rampolla e si perde in un prato.
Aveva un’idea in testa e s’alzò. (p.24)

Gli serve un rumore di sottofondo naturale pensa, aprendo così l’acqua della fontana. Si addormenta, fa un sogno macabro e a svegliarlo è stavolta la puzza dei rifiuti che i netturbini stanno ammassando sul camion. Coglie allora due ranuncoli dall’aiuola, con Tornaquinci a far finta di non vedere, svegliandosi infine all’alba per il getto d’acqua degli annaffiatoi… È tempo di recarsi al lavoro…

Ecco, adesso era come sul ciglio d’un torrente, col bosco sopra di lui, ecco, dormiva. […]
Poco distante c’era il camion della nettezza urbana che va la notte a vuotare i tombini dei rifiuti. (p.25)
ma era il puzzo a tenerlo sveglio, il puzzo acuito da un’intollerabile idea di puzzo, per cui anche i rumori, quei rumori attutiti e remoti, e l’immagine in controluce dell’autocarro con la gru non giungevano alla mente come rumore e vista ma soltanto come puzzo. E Marcovaldo smaniava, inseguendo invano con la fantasia delle narici la fragranza d’un roseto. (pp.25-26)
Intanto, Marcovaldo, ritornato al suo giaciglio, si premeva contro il naso il convulso mazzo di ranuncoli, tentando di colmarsi l’olfatto del loro profumo: poco ne poteva però spremere da quei fiori quasi inodori; ma già la fragranza di rugiada, di terra e d’erba pesta era un gran balsamo. Cacciò l’ossessione dell’immondizia e dormì. Era l’alba. […]
Con la bocca e gli occhi impastati, stranito, con la schiena dura e un fianco pesto, Marcovaldo correva al suo lavoro. (p.26)

AUTUNNO
3 – IL PICCIONE COMUNALE p.26

Una mattina d’autunno Marcovaldo prende una multa con il carretto a triciclo della ditta nel tentativo d’inseguire uno stormo di beccacce… Il caporeparto, Viligelmo, sbraita ma, sentito parlare di beccacce, lui, abile cacciatore, si prepara ad andare a caccia il sabato successivo. Marcovaldo spera di veder giungere in città tanti volatili e così cosparge di vischio e granone il tetto di casa. Unico uccello catturato risulterà però un piccione del comune da risarcire assieme alla biancheria rovinata della padrona di casa…

Gli itinerari che gli uccelli seguono migrando, verso sud o verso nord, d’autunno o a primavera, traversano di rado la città. Gli stormi tagliano il ciclo alti sopra le striate groppe dei campi e lungo il margine dei boschi, ed ora sembrano seguire la ricurva linea di un fiume o il solco d’una valle, ora le vie invisibili del vento. Ma girano al largo, appena le catene di tetti d’una città gli si parano davanti. Pure, una volta, un volo di beccacce autunnali apparve nella fetta di ciclo d’una via.
E se ne accorse solo Marcovaldo, che camminava sempre a naso in aria. (p.26)

INVERNO
4 – LA CITTÀ SMARRITA NELLA NEVE p.30

Un mattino Marcovaldo si sveglia scoprendo la città sotto una coltre di neve. Andando a lavoro a piedi si sente felice e libero come non mai, divertendosi a camminare in mezzo alla strada o a passare sulle aiuole rese invisibili dalla neve sognando di perdersi in una città diversa…

Aperse la finestra: la città non c’era più, era stata sostituita da un foglio bianco. […]
Andò al lavoro a piedi; i tram erano fermi per la neve. Per strada, aprendosi lui stesso la sua pista, si sentì libero come non s’era mai sentito. Nelle vie cittadine ogni differenza tra marciapiedi e carreggiata era scomparsa, veicoli non ne potevano passare, e Marcovaldo, anche se affondava fino a mezza gamba ad ogni passo e si sentiva infiltrare la neve nelle calze, era diventato padrone di camminare in mezzo alla strada, di calpestare le aiuole, d’attraversare fuori delle linee prescritte, di avanzare a zig–zag. (pp.30-31)

Ma, giunto al capannone della ditta, la solita amara vita di sempre lo attende: spalare la neve!…
Con i consigli del disoccupato Sigismodo, arruolatosi tra gli spazzaneve comunali, impara ad ammucchiare la neve per bene, divertendosi a ricreare una copia della macchina del direttore finendo però lui stesso per diventare un uomo di neve per via di quella buttata giù dai tetti… Ripreso il lavoro a causa di un suo starnuto, tutta la neve finisce spazzata via e il grigiore di sempre riappare alla vista…

Marcovaldo camminando sognava di perdersi in una città diversa: invece i suoi passi lo riportavano proprio al suo posto di lavoro di tutti i giorni, il solito magazzino, e, varcata la soglia, il manovale stupì di ritrovarsi tra quelle mura sempre uguali, come se il cambiamento che aveva annullato il mondo di fuori avesse risparmiato solo la sua ditta.
Lì ad aspettarlo, c’era una pala, alta più di lui. Il magazziniere–capo signor Viligelmo, porgendogliela, gli disse: – Davanti alla ditta la spalatura del marciapiede spetta a noi, cioè a te –. Marcovaldo imbracciò la pala e tornò a uscire. (p.31)
Tutt’a un tratto: l’« Aaaaah… » fu quasi un boato, e il: «.. .ciù! » fu più forte che lo scoppio d’una mina. Per lo spostamento d’aria, Marcovaldo fu sbatacchiato contro il muro.
Altro che spostamento: era una vera tromba d’aria che lo starnuto aveva provocato. Tutta la neve del cortile si sollevò, vortice come in una tormenta, e fu risucchiata in su, polverizzandosi nel cielo.
Quando Marcovaldo riaperse gli occhi dal suo tramortimento, il cortile era completamente sgombro, senza neppure un fiocco di neve. E agli occhi di Marcovaldo si ripresentò il cortile di sempre, i grigi muri, le casse del magazzino, le cose di tutti i giorni spigolose e ostili.” (p.35)

PRIMAVERA
5 – LA CURA DELLE VESPE p.36

Dalla panchina soleggiata in cui è solito trascorrere la pausa pranzo in inverno, Marcovaldo scopre dal vecchio Rizieri, afflitto da reumatismi di ogni sorta, che tramite le vespe si possono guarire quei malanni, come riportato su un vecchio giornale. Marcovaldo cattura allora una vespa e, constatata l’efficacia del metodo, in breve apre un improvvisato studio medico. Un sabato però, per colpa del figlio Michelino, un intero sciame irrompe in casa mandando tutti in ospedale…

L’inverno se ne andò e si lasciò dietro i dolori reumatici. Un leggero sole meridiano veniva a rallegrare le giornate, e Marcovaldo passava qualche ora a guardar spuntare le foglie, seduto su una panchina,aspettando di tornare a lavorare.Vicino a lui veniva a sedersi un vecchietto, ingobbito nel suo cappotto tutto rammendi: era un certo signor Rizieri, pensionato e solo al mondo, anch’egli assiduo della panchine soleggiate. […]
Così un giorno ci trovò un articolo sul sistema di guarire dai reumatismi col veleno d’api. (p.36)

Quell’anno i reumatismi serpeggiavano tra la popolazione come i tentacoli d’una piovra; la cura di Marcovaldo venne in grande fama; e al sabato pomeriggio egli vide la sua povera soffitta invasa d’una piccola folla d’uomini e donne afflitti, che si premevano una mano sulla schiena o sui fianchi, alcuni dall’aspetto cencioso di mendicanti, altri con l’aria di persone agiate, attratti dalla novità di quel rimedio. (p.39)
Vennero i pompieri e poi la Croce Rossa. Sdraiato sulla sua branda all’ospedale, gonfio irriconoscibile dalle punture, Marcovaldo non osava reagire alle imprecazioni che dalle altre brande della corsia gli lanciavano i suoi clienti. (p.40)

ESTATE
6 – UN SABATO DI SOLE, SABBIA E SONNO p.40

Un giorno d’estate Marcovaldo si reca con i figli al fiume per effettuare un ciclo di sabbiature come prescrittogli dal medico per curare i suoi reumatismi… Sul posto sono però presenti delle draghe in azione e, nei pressi di un enorme setaccio, trova quel che fa per lui: della sabbia asciutta!… Fattosi aiutare dai figli eccolo sulla chiatta sotto un cumulo di sabbia…

Per i suoi reumi, – aveva detto il dottore della Mutua, – quest’estate ci vogliono delle belle sabbiature –. E Marcovaldo un sabato pomeriggio esplorava le rive del fiume, cercando un posto di rena asciutta e soleggiata. Ma dove c’era rena, il fiume era tutto un gracchiare di catene arrugginite; draghe e gru erano al lavoro: macchine vecchie come dinosauri che scavavano dentro il fiume e rovesciavano enormi cucchiaiate di sabbia negli autocarri delle imprese edilizie fermi lì tra i salici. (P.40)
– Copritemi! con la pala! – disse ai figli. – No, la testa no; quella mi serve per respirare e deve restar fuori! Tutto il resto! (p.43)

Si addormenta e la cima mezza slegata dai uno dei figli si scioglie del tutto facendolo vagare sul fiume. Poco dopo Marcovaldo si sveglia realizzando di esser prossimo alle rapide. Dovrebbe chiedere aiuto, ma pensa così facendo di perdere i benefici delle sabbiature… Catapultato in aria, si rende conto che, data la folla presente, non toccherà comunque l’acqua…

E la chiatta carica di sabbia scese libera per il fiume. (p.43)

Capì d’essere in mezzo al fiume, in viaggio; nessuno rispondeva: era solo, sepolto in un barcone di sabbia alla deriva senza remi né timone. (p.44)

Marcovaldo si trovò proiettato in aria come da una catapulta, e in quel momento vide il fiume sotto di lui. Ossia: non lo vide affatto, vide solo il brulichio di gente di cui il fiume era pieno. […]
E Marcovaldo, volando, era incerto se sarebbe caduto su un materassino di gomma o tra le braccia d’una giunonica matrona, ma d’una cosa era certo: che neppure una goccia d’acqua l’avrebbe sfiorato. (p.45)

AUTUNNO
7 – LA PIETANZIERA p.46

Marcovaldo consuma il pasto che la moglie gli colloca in una pietanziera d’alluminio sulla panchina di un parco….

Marcovaldo adesso ha preso a masticare lentamente: è seduto sulla panchina d’un viale, vicino al posto dove lui lavora; siccome casa sua è lontana e ad andarci a mezzogiorno perde tempo e buchi nei biglietti tramviari, lui si porta il desinare nella pietanziera, comperata apposta, e mangia all’aperto, guardando passare la gente, e poi beve a una fontana. (p.47)

Per tre giorni consecutivi gli tocca mangiare salsiccia e rape e, il quarto giorno, nauseato inizia a vagare per il parco senza decidersi a mandar giù il primo boccone. Un bambino affacciato alla finestra di una ricca villa, triste e in castigo per non voler mangiare cervello fritto di cervella. Marcovaldo gli propone lo scambio e così i due possono finalmente saziarsi. Ma, dopo poco, ecco giungere la governante che dà del ladro a Marcovaldo costringendolo a precipitosa fuga…

Allora tu dammi il tuo piatto e io ti do il mio.
Evviva! – II bambino era tutto contento. Porse all’uomo il suo piatto di maiolica con una forchetta d’argento tutta ornata, e l’uomo gli diede la pietanziera colla forchetta di stagno.
Così si misero a mangiare tutti e due: il bambino al davanzale e Marcovaldo seduto su una panchina lì di fronte, tutti e due leccandosi le labbra e dicendosi che non avevano assaggiato mai un cibo così buono. (p.49)

Quella si mise a gridare: – Al ladro! Al ladro! Le posate!
Marcovaldo s’alzò, guardò ancora un momento la frittura lasciata a metà, s’avvicinò alla finestra, posò sul davanzale piatto e forchetta, fissò la governante con disdegno, e si ritrasse. Sentì la pietanziera rotolare sul marciapiede, il pianto del bambino, lo sbattere della finestra che veniva richiusa con mal garbo. Si chinò a raccogliere pietanziera e coperchio. S’erano un po’ ammaccati; il coperchio non avvitava più bene.
Cacciò tutto in tasca e andò al lavoro. (p.50)

INVERNO
8 – IL BOSCO SULL’AUTOSTRADA p.51

In pieno inverno, terminata la legna, Marcovaldo è costretto di notte ad andarne in cerca. Magro è il suo bottino, mentre i figli, rincasati prima di lui, hanno abbattuto un cartellone pubblicitario credendo fosse quello il bosco di cui parla un libro di favole appena letto… Seguendone l’esempio il capofamiglia si dirige in autostrada dove, per sua fortuna, il miope agente di polizia stradale Astolfo lo scambia per parte di una pubblicità…

A casa di Marcovaldo quella sera erano finiti gli ultimi stecchi, e la famiglia, tutta incappottata, guardava nella stufa impallidire le braci, e dalle loro bocche le nuvolette salire a ogni respiro. […]
Alla fine Marcovaldo si decise: – Vado per legna;  chissà che non ne trovi -. Si cacciò quattro o cinque giornali tra la giacca e la camicia a fare da corazza contro i colpi d’aria, si nascose sotto il cappotto una lunga sega dentata, e così uscì nella notte, seguito dai lunghi sguardi speranzosi dei familiari.
Andare per legna in città: una parola! Marcovaldo si diresse subito verso un pezzetto di giardino pubblico che c’era tra due vie. Tutto era deserto. Marcovaldo studiava le nude piante a una a una pensando alla famiglia che lo aspettava battendo i denti…
Intanto il piccolo Michelino, battendo i denti, leggeva un libro di fiabe, preso in prestito alla bibliotechina della scuola. Il libro parlava d’un bambino figlio di un taglialegna, che usciva con l’accetta, per far legna nel bosco. – Ecco dove bisogna andare, – disse Michelino, – nel bosco! Lì sì che c’è la legna! – Nato e cresciuto in città, non aveva mai visto un bosco neanche di lontano. Detto fatto, combinò coi fratelli: uno prese un’accetta, uno un gancio, uno una corda, salutarono la mamma e andarono in cerca di un bosco. (pp.51-52)

PRIMAVERA
9 – L’ARIA BUONA p.55

Su consiglio del medico Marcovaldo è costretto un sabato pomeriggio a condurre i figli malaticci in collina per respirare aria buona e giocare all’aria aperta. I piccoli si divertono e lo stesso manovale fantastica sul trasferirsi lì. Parlando con alcuni sopraggiunti uomini, prima di andar via scopre esser quello uno spazio riservato ai degenti…

Questi bambini, – disse il dottore della Mutua, – avrebbero bisogno di respirare un po’ d’aria buona, a una certa altezza, di correre sui prati… (p.55)
Il pomeriggio d’un sabato, appena furono guariti, Marcovaldo prese i bambini e li condusse a fare una passeggiata in collina. (pp.55-56)

ESTATE
10 – UN VIAGGIO CON LE MUCCHE p.60

Michelino, uno dei figli di Marcovaldo, scompare dopo aver visto passare le mandrie. Invano lo cerca fino a che viene informato della permanenza del ragazzo in montagna con un mandria. A Marcovaldo non resta che invidiarlo…

In ogni presenza umana Marcovaldo riconosceva tristemente un fratello come lui inchiodato anche in tempo di ferie a quel forno di cemento cotto e polveroso, dai debiti, dal peso della famiglia, dai salari scarsi o nulli. […]
Era una mandria come ne attraversavano nottetempo la città, al principio dell’estate, andando verso le montagne per l’alpeggio. (p.61)

Così, fino a che l’ultimo suono di camapanaccio fu dileguato alla luce dell’alba, Marcovaldo continuò a girare inutilmente.
Il commissario cui si rivolse per denunciare la scomparsa del figlio, disse: – Dietro una mandria? Sarà andato in montagna, a farsi la villeggiatura, beato lui. Vedrai, tornerà grasso e abbronzato.
L’opinione del commissario ebbe conferma qualche giorno dopo da un impiegato della ditta dove lavorava Marcovaldo, tornato dal primo turno di ferie. A un passo di montagna aveva incontrato il ragazzo: era con la mandria, mandava a salutare il padre, e stava bene.
Marcovaldo nella polverosa calura cittadina andava col pensiero al suo figlio fortunato, che adesso certo passava le ore all’ombra d’un abete, zufolando con una foglia d’erba in bocca, guardando giù le mucche muoversi lente per il prato, e ascoltando nell’ombra della valle un fruscio d’acque. (p.63)

Qualche tempo dopo la mandria e Michelino son di ritorno. Il ragazzo è stanco morto per la mole di lavoro che ha dovuto sopportare, altro che vacanza in montagna…

Corsero in strada, lui e tutta la famiglia. Ritornava la mandria, lenta e grave. E nel mezzo della mandria, a cavalcioni sulla groppa d’una mucca, con le mani strette al collare, col capo che ballonzolava a ogni passo, c’era, mezzo addormentato, Michelino.
Lo presero su di peso, l’abbracciarono e baciarono. Lui era mezzo stordito. (p.64)

AUTUNNO

11 – IL CONIGLIO VELENOSO p.66

In fase di dimissione dall’ospedale, Marcovaldo finisce per trafugare un coniglio cavia dallo studio medico…

Marcovaldo un mattino così fiutava intorno, guarito, aspettando che gli scrivessero certe cose sul libretto della mutua per andarsene. Il dottore prese le carte, gli disse: – Aspetta qui, – e lo lasciò solo nel suo laboratorio. (p.66)
Fu allora che vide un coniglio in una gabbia. Era un coniglio bianco, di pelo lungo e piumoso, con un triangolino rosa di naso, gli occhi rossi sbigottiti, le orecchie quasi implumi appiattite sulla schiena. (p.67)
Così, col coniglio nascosto nel giubotto lasciò l’ospedale e andò al lavoro. (p.68)

Rincasato dal lavoro da cui ha ottenuto un ulteriore giorno di convalescenza, Marcovaldo progetta ai familiari di farlo ingrassare fino al Natale. Ma di cibo in casa non ce n’è e così, l’indomani, la moglie decide di cucinarlo incaricando i figli di portarlo a far uccidere dalla signora Diomira. Nel frattempo Marcovaldo è raggiunto da medici e polizia: il coniglio è una cavia cui sono stati inoculati pericolosi germi. Eccoli quindi alla ricerca dell’animale che i bambini hanno intanto fatto fuggire sui tetti dove inizialmente gli viene data la caccia. Colpito da un proiettile di rimbalzo, l’animale decide di farsi scivolare nel vuoto ma i pompieri lo raccolgono al volo facendo sì che torni in ospedale…

E finì tra le mani guantate d’un pompiere, issato in cima a una scala portatile. Impedito fin in quell’estremo gesto di dignità animale, il coniglio venne caricato sull’ambulanza che partì a gran carriera verso l’ospedale. A bordo c’erano anche Marcovaldo, sua moglie e i suoi figlioli, ricoverati in osservazione e per una serie di prove di vaccini. (p.75)

INVERNO
12 – LA FERMATA SBAGLIATA p.76

Appassionato di cinema, unico svago che gli consente di evadere dalla monotonia della vita che conduce, Marcovaldo si ritrova a vagare per le vie cittadine, ricoperte di nebbia, dopo aver sbagliato fermata per fantasticare sui paesaggi indiani visti sullo schermo… Invano chiede a un passante e in un’osteria, ritrovandosi infine a bordo di un aereo diretto a Singapore via India!…

Per chi ha in uggia la casa inospitale, il rifugio preferito nelle serate fredde è sempre il cinema. La passione di Marcovaldo erano i film a colori, sullo schermo grande che permette d’abbracciare i più vasti orizzonti: praterie, montagne rocciose, foreste equatoriali, isole dove si vive coronati di fiori. Vedeva il film due volte, usciva solo quando il cinema chiudeva; e col pensiero continuava ad abitare quei paesaggi e a respirare quei colori. Ma il rincasare nella sera piovigginosa, l’aspettare alla fermata il tram numero 30, il constatare che la sua vita non avrebbe conosciuto altro scenario che tram, semafori, locali al seminterrato, fornelli a gas, roba stesa, magazzini e reparti d’imballaggio, gli facevano svanire lo splendore del film in una tristezza sbiadita e grigia.
Quella sera, il film che aveva visto si svolgeva nelle foreste dell’India[…] (p.76)
All’uscita del cinema, aperse gli occhi sulla via, tornò a chiuderli, a riaprirli: non vedeva niente. Assolutamente niente. Neanche a un palmo dal naso. Nelle ore in cui era restato là dentro, la nebbia aveva invaso la città, una nebbia spessa, opaca, che involgeva le cose e i rumori, spiaccicava le distanze in uno spazio senza dimensioni, mescolava le luci dentro il buio trasformandole in bagliori senza forma né luogo. (pp.76-77)
Marcovaldo, imbacuccato nel suo pastrano, si sentiva protetto da ogni sensazione esterna, librato nel vuoto, e poteva colorare questo vuoto con le immagini dell’India, del Gange, della giungla, di Calcutta.
Venne il tram, evanescente come un fantasma, scampanellando lentamente; le cose esistevano appena quel tanto che basta; per Marcovaldo quella sera lo stare in fondo al tram, voltando la schiena agli altri passeggeri, fissando fuori dai vetri la notte vuota, attraversata solo da indistinte presenze luminose e da qualche ombra più nera del buio, era la situazione perfetta per sognare a occhi aperti, per proiettare davanti a sé dovunque andasse un film ininterrotto su uno schermo sconfinato.
Così fantasticando aveva perso il conto delle fermate; a un tratto si domandò dov’era; vide il tram ormai quasi vuoto; scrutò fuori dai vetri, interpretò i chiarori che affioravano, stabilì che la sua fermata era la prossima, corse all’uscita appena in tempo, scese. Si guardò intorno cercando qualche punto di riferimento. Ma quel poco d’ombre e luci che i suoi occhi riuscivano a raccogliere, non si componevano in nessuna immagine conosciuta. S’era sbagliato di fermata e non sapeva dove si trovava. (p.77)

Scusi, signor bigliettaio, – disse Marcovaldo, – sa se c’è una fermata dalle parti di via Pancrazio Pancra–zietti?
– Come dice signore? Il primo scalo è Bombay, poi Calcutta e Singapore.
Marcovaldo si guardò intorno. Negli altri posti erano seduti impassibili indiani con la barba e col turbante. C’era pure qualche donna, avvolta in un sari ricamato, e con un tondino di lacca sulla fronte. La notte ai finestrini appariva piena di stelle, ora che l’aeroplano, attraversata la fitta coltre di nebbia, volava nel cielo limpido delle grandi altezze. (p.83)

PRIMAVERA
13 . DOV’È PIÙ AZZURRO IL FIUME p.84

Angosciato dalle notizie relative al cibo contaminato che quotidianamente occupano le pagine dei giornali, Marcovaldo decide di recarsi al fiume per pescare pesce fresco. Individuato un posto che sembra idoneo e ricco di pesce, vi si reca facendo un’ottima pesca. Ma una guardia lo avverte che il fiume è contaminato dalla fabbrica di vernici che si trova poco sopra…

«Tutti i miei sforzi devono essere diretti, – si ripromise, – a provvedere la famiglia di cibi che non siano passati per le mani infide di speculatori».  Al mattino andando al lavoro, incontrava alle volte uomini con la lenza e gli stivali di gomma, diretti al lungofiume. «È quella la via”, si disse Marcovaldo. Ma il fiume lì in città, che raccoglieva spazzature
scoli e fogne, gli ispirava una profonda ripugnanza. “Devo cercare un posto, – si disse, – dove l’acqua sia davvero acqua, i pesci davvero pesci. Lì getterò la mia lenza». (pp.84-85)

14 – LUNA E GNAC p.88

A rovinare il cielo notturno c’è per Marcovaldo e gli altri del quartiere la pubblicità al neon della Spaak-Cognac che preclude loro la vista ogni venti secondi…

Il Gnac era una parte della scritta pubblicitaria  Spaak-Cognac sul tetto di fronte, che stava venti secondi accesa e venti spenta, e quando era accesa non si vedeva nient’altro. (p.88)

Una sera Michelino, nell’ascoltare il padre promettergli di insegnargli a riconoscere stelle e pianeti se non ci fosse l’insegna, la danneggia con la fionda…

Il Leone! – Michelino fu preso d’entusiasmo. – Aspetta! – Gli era venuta un’idea. Prese la fionda, la caricò del ghiaino di cui sempre aveva in tasca una riserva, e tirò una sventagliata di sassolini con tutte le forze contro il gnac. (p.90)
Così per il resto di quella e per tutta la notte dopo, la scritta luminosa sul tetto di fronte diceva solo Spaak-Co e dalla mansarda di Marcovaldo si vedeva il firmamento. (p.92)

Qualche giorno dopo quelli della ditta COGNAC TOMAWAK installano la propria pubblicità sul tetto della casa di Marcovaldo i cui figli devono continuare a danneggiare quella della Spaak che, poco tempo dopo, fallisce… La nuova scritta danneggia altre persone risultando grande il doppio e con intermittenza fissata in due secondi!…

AUTUNNO
15 – LA PIOGGIA E LE FOGLIE p.94

A Marcovaldo viene assegnato il per lui piacevole compito di accudire una pianta grassa che, in breve, diviene la sua nuova ragione di vita…

In ditta, tra le varie altre incombenze, a Marcovaldo toccava quella d’innaffiare ogni mattina la pianta in vaso dell’ingresso. (p.94)
La pianta (così, semplicemente, essa era chiamata, come se ogni nome più preciso fosse inutile in un ambiente in cui a essa sola toccava di rappresentare il regno vegetale) era entrata nella vita di Marcovaldo tanto da dominare i suoi pensieri in ogni ora del giorno e della notte. (p.95)

Durante una giornata di pioggia il manovale si accorge che la pianta cresce sotto l’acqua a vista d’occhio e così si fa accordare da Viligelmo il permesso di portarla a casa. L’indomani, grazie alla pioggia, la pianta è raddoppiata di volume…

Ma con tutto che l’avesse pensato, aprendo la finestra al mattino non poteva credere ai suoi occhi: la pianta ora ingombrava mezza finestra, le foglie erano per lo meno raddoppiate di numero, e non più reclinate sotto il loro peso ma tese e aguzze come spade. (p.97)

Durante il successivo week-end eccolo girare per la città con la pianta legata dietro alla bici per farle prendere quanta più acqua possibile, così tanta da renderla enorme al punto da non consentirne più l’ingresso nella ditta… Viligelmo gli ordina allora di portarla al vivaio per cambiarla con una più piccola…

Allora, – s’affrettò a proporre Marcovaldo, – io porterei la pianta a fare un giro dove piove, – e detto fatto tornò a sistemare il vaso sul portapacchi della bici. Il sabato pomeriggio e la domenica, Marcovaldo li passò in questo modo: caracollando sul sellino della sua bicicletta a motore, con la pianta dietro, scrutava il cielo, cercava una nuvola che gli sembrasse ben intenzionata, e correva per le vie finché non incontrava pioggia. (p.98)

Il lunedì Marcovaldo si presentò al signor Viligelmo a mani vuote.
E la pianta? – chiese subito il magazziniere-capo.
È fuori. Venga.
Dove? – fece Viligelmo. – Non la vedo.
È quella lì. È cresciuta un po’… – e indicò un albero che arrivava al secondo piano. Era piantato non più nel vecchio vaso ma in una specie di barile, e al posto della bicicletta Marcovaldo aveva dovuto procurarsi un motociclo a furgoncino.
E adesso? – s’infuriò il capo. –-Come possiamo farla stare nell’ingresso? Non passa più dalle porte!
Marcovaldo si strinse nelle spalle.
L’unica, –-disse Viligelmo, – è restituirla al vivaio in cambio d’un’altra dalle dimensioni giuste!
Marcovaldo rimontò in sella. – Vado. (p.99)

Ormai affezionatosi alla pianta, Marcovaldo vaga per la città senza mai imboccare la via che conduce al vivaio, generando un corteo di curiosi che seguono l’appassire della pianta di cui, dopo un po’ resta il solo fusto…

INVERNO
16 – MARCOVALDO AL SUPERMARKET p.101

Dopo le diciotto il supermarket si riempie di consumatori e, tra di essi, si mescola anche la famiglia Marcovaldo. Ben poveri, Marcovaldo e i suoi si limitato a girare con i carrelli vuoti divertendosi a guardare gli altri acquistare. Una sera tutti e otto finiscono per riempire i carrelli e, giunta la chiusura, non riescono a ricollocare negli scaffali la roba presa. Tramite un passaggio vicino a dei lavori in corso, la famiglia si ritrova nei pressi delle fauci di una gru al cui interno abbandonano il contenuto dei carrelli…

Alle sei di sera la città cadeva in mano dei consumatori. Per tutta la giornata il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert’ora, come per lo scatto d’un interruttore, smettevano la produzione e via! Si buttavano tutti a consumare. (P.101)
Una di queste sere Marcovaldo stava portando a spasso la famiglia. Essendo senza soldi, il loro spasso era guardare gli altri fare spese; inquantoché il denaro, più ne circola, più chi ne è senza spera: “Prima o poi finirà per passarne anche un po’ per le mie tasche”. Invece, a Marcovaldo, il suo stipendio, tra che era poco e che di famiglia erano in molti, e che c’erano da pagare rate e debiti, scorreva via appena percepito. Comunque, era pur sempre un bel guardare, specie facendo un giro al supermarket. (P.102)

PRIMAVERA

17 – FUMO, VENTO E BOLLE DI SAPONE p.107

I figli di Marcovaldo tentano invano di dar vita a un business con la raccolta di campioni di sapone, ammassandone un quantitativo enorme in cantina. Ma le case produttrici iniziano a inviare a tutti campioni omaggio, denunciando gli ignoti che cercano di farli pagare. Marcovaldo intima allora ai figli di buttare il sapone ammassato che, a contatto con le rapide del fiume, dà vita a un divertente e meraviglioso spettacolo a base di bolle di sapone in cielo. Dopo un po’ però, Marcovaldo constata che in cielo rimane solo il fumo…

[…]tutti si misero a naso in su seguendo il volo delle bolle di sapone. (p.113)
Finché a un certo punto Marcovaldo cerca cerca nel cielo non riusciva a vedere più le bolle ma solo fumo fumo fumo. (p.114)

ESTATE
18 – LA CITTÀ TUTTA PER LUI p.115

Unico a rimanere in città a ferragosto è Marcovaldo che si gode la stessa immaginando strade e palazzi come letti di fiumi e montagne…

La popolazione per undici mesi all’anno amava la città che guai toccargliela: i grattacieli, i distributori di sigarette, i cinema a schermo panoramico, tutti motivi indiscutibili di continua attrattiva. L’unico abitante cui non si poteva attribuire questo sentimento con certezza era Marcovaldo; ma quel che pensava lui – primo – era difficile saperlo data la scarsa sua comunicativa, e – secondo – contava così poco che comunque era lo stesso.
A un certo punto dell’anno, cominciava il mese d’agosto. Ed ecco: s’assisteva a un cambiamento di sentimenti generale. Alla città non voleva bene più nessuno: gli stessi grattacieli e sottopassaggi pedonali e autoparcheggi fino a ieri tanto amati erano diventati antipatici e irritanti. La popolazione non desiderava altro che andarsene al più presto: e così a furia di riempire treni e ingorgare autostrade, al 15 del mese se ne erano andati proprio tutti. Tranne uno. Marcovaldo era l’unico abitante a non lasciare la città.
Uscì a camminare per il centro, la mattina. S’aprivano larghe e interminabili le vie, vuote di macchine e deserte;
le facciate delle case, dalla siepe grigia delle saracinesche abbassate alle infinite stecche delle persiane, erano chiuse come spalti. Per tutto l’anno Marcovaldo aveva sognato di poter usare le strade come strade, cioè camminandoci nel mezzo: ora poteva farlo, e poteva anche passare i semafori col rosso, e attraversare in diagonale, e fermarsi nel centro delle piazze. Ma capì che il piacere non era tanto il fare queste cose insolite, quanto il vedere tutto in un altro modo: le vie come fondovalli, o letti di fiumi in secca, le case come blocchi di montagne scoscese, o pareti di scogliera. (pp.115-116)

Il giorno di ferragosto, camminando al centro della carreggiata, per poco non viene investito da un’auto che si rivela essere quella di un troupe televisiva che, dopo averlo intervistato in qualità di unico presente in città, lo assolda per il set di riprese di Follie di Ferragosto…

AUTUNNO
19 – IL GIARDINO DEI GATTI OSTINATI p.119

Durante la pausa pranzo Marcovaldo segue un gatto soriano nelle sue escursioni. Durante una di esse, eccolo raggiungere il tetto del ristorante Biarritz dalla cui vasca per i pesci vivi sottrae una trota pescandola con una lenza. Ma il soriano gliela ruba costringendolo a un lungo inseguimento fino a un giardino abbandonato dove una colonia felina inizia una zuffa per il diritto di tentare di recuperare il pesce rimasto impigliato al ramo di un albero…

Marcovaldo, certe volte, per passare il tempo, seguiva un gatto. (p.120)
In compenso, dalla città dei gatti s’aprivano spiragli insospettati sulla città degli uomini: e un giorno fu proprio il soriano a guidarlo alla scoperta del grande Ristorante Biarritz. (p.121)

Dalla finestra della casa qualcuno si appropria della trota, mentre la zuffa ha termine non appena in giardino piovono avanzi di cibo gettati agli animali da anziane gettare che spiegano a Marcovaldo esser rimasto quello l’unico terreno non ancora edificato in centro. Il manovale si convince a parlare con la vecchia proprietaria che, pur friggendo la trota, nega di averla presa… A fine inverno la vecchia viene rinvenuta morta e in primavera, nonostante il boicottaggio dei gatti, ha inizio la costruzione di un grattacielo in quel giardino…

INVERNO
20 – I FIGLI DI BABBO NATALE p.131

L’Ufficio Relazioni Pubbliche della SBAV decide di far pubblicità all’azienda facendo consegnare pacchi ai clienti facoltosi da un dipendente vestito da babbo natale. L’incarico tocca proprio a Marcovaldo che, come prima tappa, si reca dai propri figli che però lo riconoscono avendo anche le altre ditte adottato analogo metodo pubblicitario. La delusione coglie quindi il manovale che sperava di scorgere gioia e sorpresa nei volti dei bambini…

Alla Sbav quell’anno l’Ufficio Relazioni Pubbliche propose che alle persone di maggior riguardo le strenne fossero recapitate a domicilio da un uomo vestito da Babbo Natale. (p.132)
Il capo dell’Ufficio Personale entrò in magazzino con una barba finta in mano: – Ehi, tu! – disse a Marcovaldo. – Prova un po’ come stai con questa barba. Benissimo! Il Natale sei tu. Vieni di sopra, spicciati. Avrai un premio speciale se farai cinquanta consegne a domicilio al giorno.
Marcovaldo camuffato da Babbo Natale percorreva la città, sulla sella del motofurgoncino carico di pacchi involti in carta variopinta, legati con bei nastri e adorni di rametti di vischio e d’agrifoglio. La barba d’ovatta bianca gli faceva un po’ di pizzicorino ma serviva a proteggergli la gola dall’aria.
La prima corsa la fece a casa sua, perché non resisteva alla tentazione di fare una sorpresa ai suoi bambini. ” Dapprincipio, – pensava, non mi riconosceranno. Chissà come rideranno, dopo! ”
I bambini stavano giocando per la scala. Si voltarono appena. – Ciao papà.
Marcovaldo ci rimase male. -Mah… Non vedete come sono vestito?
– E come vuoi essere vestito? – disse Pietruccio. – Da Babbo Natale, no?
– E m’avete riconosciuto subito? (pp.133-134)

I piccoli sono intenti, gli spiegano, a preparare dei doni per un bambino povero. Per superare la delusione Marcovaldo decide di portarsi dietro Michelino… In una lussuosa villa s’imbattono in bambino triste nonostante gli oltre trecento regali fin lì ricevuti. È quello il figlio del presidente dell’Unione Incremento Vendite Natalizie. È a lui che Michelino porta tre doni: un martello, una fionda e un pacchetto di fiammiferi con cui il rampollo distrugge tutto finendo poi per incendiare l’intera casa. Il padre del bambino è entusiasta nel prospettare un incremento pazzesco di vendite con la diffusione di quel kit di distruzione. Uno spirito materialista che Marcovaldo ovviamente non condivide…

Marcovaldo ovvero le stagioni in città riassunto

Marcovaldo ovvero le stagioni in città riassunto

Behemoth… Lo sbranatore di sovraccopertine… Non sembra un “angioletto”? 😀 😀 😀

Qual è il messaggio del libro Marcovaldo?

In Marcovaldo Calvino unisce aspetti fiabeschi e ironia per affrontare temi e problematiche attuali 3: la vita caotica in città, l'urbanizzazione senza razionalità ed ordine, l'industrializzazione crescente e la povertà delle fasce più basse della popolazione, la difficoltà dei rapporti umani ed interpersonali.

Quali sono i temi principali di Marcovaldo?

I temi trattati nel testo sono:.
La vita caotica in città.
L'urbanizzazione senza razionalità ed ordine..
L'industrializzazione crescente e la società dei consumi..
La povertà delle fasce più basse della popolazione..
La difficoltà dei rapporti umani ed interpersonali..

Cosa pensa Marcovaldo della città?

Perché ogni città è anche un bosco, o meglio: ogni città vive, proprio in quanto città, anche grazie alla presenza di una dotazione significativa di “rappresentanti” del mondo vegetale: fiori, cespugli, siepi, alberi.

Come finisce il libro Marcovaldo?

Dall'ospedale Marcovaldo ruba anche un coniglio ma scopre che l'animale è contaminato. Questa triste fine caratterizza tutti gli episodi dell'opera di Calvino, che si conclude con la città ricoperta dalla neve.