Forse uno dei romanzi più conosciuti al mondo – non mi azzardo a dire “più letti al mondo” –, Il ritratto di Dorian Gray sembra essere uno di quei libri di cui tutti (o quasi tutti) hanno sentito parlare, senza però necessariamente leggerlo. È già qualcosa, suppongo. Un’altra cosa di cui tutti (o quasi tutti) hanno sentito parlare è il fatto che sia un libro che racconta come il personaggio – Dorian Gray, per l’appunto – resti giovane per sempre, facendo invecchiare un quadro al posto suo. Non è proprio così. O, meglio: a prima vista potrebbe sembrarlo, ancor di più se la prima vista è per sentito dire. Perché, sì, Il ritratto di Dorian Gray parla sì di un giovane, e parla anche di un quadro (d’altronde, lo dice già il titolo), e sì, parla di giovinezza. Questi argomenti però sono soltanto le lievi increspature sulla superficie del libro: la potente (e straordinariamente bella) corrente in profondità non può essere percepita per sentito dire. Ma farò del mio meglio. Show Che i tempi in cui abbia vissuto non fossero tempi adatti a lui lo si può affermare con certezza. Che non siano ancora arrivati tempi giusti per Oscar Wilde è un dubbio che ho e che vi pongo. Nonostante la “modernità” in cui viviamo, il medioevo seppellito nei nostri cuori affiora in superficie più spesso di quello che vorremmo. Omosessuale, bellissimo e pieno di spirito, oltre che di talento, Wilde era troppo per l’epoca vittoriana (se volete approfondire, questo articolo racconta brevemente la sua vita). Così come sarebbe troppo persino in questo principio di millennio. Specie se considerato che non faceva altro che, neanche troppo velatamente, criticare la società in cui viveva. A nessuna società piace essere criticata. Ancor meno derisa. La società ama prendersi sul serio. E pretende di essere presa sul serio. Oscar Wilde è un personaggio da romanzo. Si impegna lui stesso a esserlo, un po’ spinto dalla sua indole di “homme fatale” o, più comunemente definita “dandy”, un po’ (ma il mio è solo un sospetto) dalla terribile e insopportabile paura del qualunquismo. La difficoltà di tale scelta dovrebbe essergli stata chiara fin dal principio: a differenza dei personaggi da romanzo che vivono e muoiono tragicamente soltanto sulla carta, lui lo ha fatto per davvero. Ecco perché lo amo irrimediabilmente. Romanzo breve e di facile lettura, Il ritratto di Dorian Gray ha pochi personaggi, ancor meno azione, una miriade di aforismi, oltre a essere la più completa opera di allegoria dell’estetica nella letteratura. Ah, con quest’ultima affermazione potete anche non essere d’accordo. Opera che ha suscitato non poco scalpore, ha dato a Wilde la notorietà ma anche una certa spinta verso la prigione, in quanto i perbenisti del tempo giudicarono Oscar Wilde non solo in base a quella che era la nota accusa, ma anche imputandogli (segretamente) i misfatti presenti nel suo romanzo.
L’importanza delle paroleL’originalità della trama, la critica al moralismo (tutt’ora valida), lo struggente dilemma esistenziale: sono tutti elementi che contribuiscono a rendere questo breve romanzo un capolavoro, nonché a renderlo unico nel panorama letterario mondiale. Ma, ai miei occhi, quello che lo rende davvero sublime, è la perfezione dell’uso delle parole. La traduzione, generalmente, ha un peso fondamentale nella riuscita di un libro; in questo specifico caso, però, la traduzione è tutto. Oltre al libro, s’intende. Se comunque si ha la fortuna o la capacità di leggerlo in lingua originale (cosa che consiglio anche ai meno esperti, in quanto di altissimo livello linguistico, eppure non difficile) si verrà accarezzati di tutta l’avvolgente bellezza che Wilde crea dalle parole.
Wilde conosce benissimo il peso delle parole, sa usarle magistralmente e, soprattutto, comprende il loro potenziale:
Dove, quando, cosaLondra, fine del XIX secolo. Siamo fra nobiltà, la crème de la crème della società inglese del tempo. Una certa noia (ennui, per dirlo alla Lord Henry) serpeggia fra la meglio gioventù, avvelenando i balli di debutto, i tè delle cinque, le cene in ghingheri, le serate all’opera, insomma: l’intera stagione. Oramai ci si conosce tutti, si spettegola su tutti e non si fa altro che fingere interesse o piacere o gioia (con moderazione, s’intende) con una classe irraggiungibile. Se mai vorrete imparare l’arte della finzione sociale, vi consiglio senz’altro i salotti buoni della Londra vittoriana. I giovani rampolli della Londra bene frequentano i giovani artisti (altrettanto per bene), i giovani (e disperati) artisti frequentano – per obbligo – la buona società: i primi nel tentativo di sembrare interessanti, i secondi nella speranza di vendere qualcosa. Nello studio di un pittore infatti, passa ogni tanto del tempo il suo amico, Lord Henry: il più grande dispensatore di aforismi dell’intera letteratura mondiale. In verità, lui non parla: lui elargisce perle di saggezza senza moralità (trovate voi il senso a questa frase). Ho sempre pensato che deve essere una fatica terribile cercare qualcosa di spiritoso (cioè: di spirito, non che faccia ridere) da dire per ogni frase espressa; a qualcuno viene spontaneo, è vero, ma troppo rari sono questi esemplari. Oscar Wilde era uno di loro, in effetti: aveva fatto dall’arte di discorrere un capolavoro, come possiamo ancora oggi scoprirlo in uno dei suoi alter-ego, Lord Henry per l’appunto. I due amici contemplano lo scorrere del tempo, ma anche l’ultimo quadro al quale il pittore sta lavorando: il ritratto di un giovane di straordinaria bellezza. Lord Henry insiste per conoscere il giovane del dipinto, amico del pittore, il pittore – che conosce i suoi polli –, si rifiuta. La discussione va per le lunghe (come vi dicevo, non avevano altro da fare) ed ecco che il giovane in persona si presenta in visita dall’artista. Le presentazioni sono d’obbligo (ricordatevi: prima di tutto, le buone maniere!) e il danno è fatto (lo capirete più avanti). Chi è chi
Chi fa cosaNello studio di Basil Hallward, il carismatico e parecchio annoiato Lord Henry ci mette davvero poco a convincere il giovanissimo Dorian Gray che l’unica vera felicità della vita è quella di essere giovani.
Dorian Gray resta perplesso per qualche breve momento – troppo breve in effetti per non farci già sospettare un profondo vuoto rivestito di grazia –, poi, sopraffatto dalla scoperta che sia giovinezza che bellezza sono passeggere, decide di puntare tutto su quelle, appunto. Molto sveglio. Quindi, mentre si guarda ritratto nello stupendo dipinto realizzato da Basil, si ritrova a desiderare che sia il dipinto a invecchiare al suo posto. La petulanza da viziato inizia a trasparire dal principesco involucro di cui è rivestito. Qualche giorno più tardi, Dorian confessa di essersi innamorato, Lord Henry non lo prende sul serio – dopotutto, Lord Henry non prende mai nulla e nessuno sul serio –, e lo fa ancora ancor meno quando il ragazzo gli racconta che la fortunata è una giovanissima attrice di teatro Sybil Vain, povera ma bellissima, strepitosa nei panni delle eroine shakespeariane. Dorian Gray elogia appassionatamente l’attrice per le sue interpretazioni teatrali, talmente appassionatamente da non rendersi conto di non conoscerla neanche, come persona.
Il nostro etereo personaggio si dichiara senza indugio, cioè dichiara il suo amore per tutto ciò che la ragazza impersona, ma Sybil Vain ha a malapena diciassette anni e non riesce a distinguere i vari tipi di amore (ma chi ci riesce?), inoltre, non può resistere al fascino di Gray (ma chi può farlo?), quindi si abbandona completamente all’amore senza conoscere neanche il nome dell’amato. A casa racconta timidamente i suoi sentimenti per colui che lei chiama “Principe Azzurro”, ma il fratello, meno romantico, non prova esattamente le stesse cose. Peccato lui si debba imbarcare per l’Australia. Dorian Gray convince Basil e Lord Henry ad accompagnarlo al teatruccio in cui recita Sybil, rimbambendo i due (e noi lettori) con iperboliche lodi sul talento della ragazza che metterebbero ansia di prestazione a chiunque. Infatti, Sybil recita malissimo, gettando i tre amici in uno sconforto totale. Ma è soprattutto l’innamorato a essere deluso, disperato persino. Si precipita da lei in camerino: lei è in estasi, l’amore per lui ha preso il posto dell’amore per l’arte della recitazione e lei è al culmine della gioia poiché può dedicarlo tutto a lui, al suo Principe Azzurro. Glielo confessa con ingenua allegria:
Il Principe Azzurro, che sta virando su sfumature di grigiastro, non la vede allo stesso modo, anzi: non la vede per niente. Lui la amava per la sua arte, senza quella lei non è nulla!
Beh, capite da voi la meschinità orrenda, la pochezza d’animo, la crudeltà di questo personaggio. Per Sybil Vain deve essere stato un momento terribile. E infatti, la notte stessa si suicida. Dopo aver dato prova dell’uomo che è, Dorian Gray, abbandonata Sybil, vaga per la città nel tentativo di riprendersi dalla terribile delusione che il suo smisurato ego sembra aver subito. Verso il mattino fa rientro a casa, nelle sue stanze lo sguardo gli cade sul suo ritratto dipinto di Basil. Orrore! Il suo viso divino sembra alterato da un ghigno di malvagità! Che scherzo è mai questo? Com’è possibile? Forse il desiderio espresso è diventato realtà? Nota: semplificando di molto il concetto di questo libro, si definisce la trama di questo romanzo indicando come punto focale il dipinto che invecchia al posto del personaggio; apparentemente è così (ed è il personaggio stesso a desiderarlo ardentemente), però quello che, secondo me, rappresenta il vero peso in questo libro, è il fatto che il dipinto si trasforma non tanto in base del passare del tempo, ma che i cambiamenti maggiori e immediati siano relativi all’animo del personaggio. Le sue dissolutezze, i suoi vizi e il suo abbandonarsi a essi, il progressivo essere divorato dall’interno – questi sono i veri segni mostrati dal dipinto, così come questa è la vera analisi del romanzo. A questo punto, Dorian Gray si persuade che il dipinto l’abbia preso davvero in parola ed è esterrefatto e al contempo scocciato dalla brutta piega che hanno preso sia la sua bocca (nel quadro), sia le cose (nella vita). Ci dorme un po’ su, poi passa il giorno evitando contatti con il mondo esteriore, sentendosi un pelino in colpa per come ha trattato Sybil. In uno slancio di magnanimità (finta: dettata più dal brutto ghigno del quadro che quello del suo cuore), le scrive una lettera per chiedergli perdono, deciso a sposarla come supremo sacrificio. Tutto sistemato. Lord Henrysi presenta a casa sua: come stai? Tutto bene, ho deciso di sposare Sybil, anche se non ha il minimo talento e neanche se lo merita. Oh, ma come, non hai letto la mia lettera? Sybilè morta suicida. Disgrazia. Dorian Gray passa una brutta mezz’ora, Lord Henry – sempre attento alle apparenze – si assicura che in teatro nessuno sappia il nome del suo giovane amico, Sybil Vainè morta e sepolta (più o meno), non pensiamoci più. Si va all’opera (non so esattamente che faccia abbia fatto il quadro in quel preciso istante, ma secondo me deve essere stata orribile). La vita prosegue come se niente fosse – meno che per Sybil, s’intende –, i rampolli continuano ad annoiarsi, i salotti buoni ricevono con la stessa maniacale attenzione per una superficie perfetta e il solito snobismo immotivato; Dorian Gray fa nascondere il ritratto in soffitta, lo chiude a chiave e tanti saluti, per poi darsi alla pazza gioia di una vita fatta di depravazione e comportamenti tutt’altro che da gentiluomo. Ma cosa importa? Lui ha dalla sua la bellezza eterna, la sua scelta è fatta, il dado tratto. Lascerà che i peggiori mostri gli divorino l’anima, senza che questo scalfisca l’angelica parvenza del suo apparire. Lui non ha fatto un patto con il demonio: lui si trasforma nel demonio. Un bellissimo, apollineo demonio. Passa il tempo (oltre al comportarsi spregevolmente) ad appassionarsi di moda, di profumi, di musica e di pietre preziose, poi di arazzi e di vesti clericali (le digressioni su questi argomenti sono un capolavoro a sé), dà ricevimenti sontuosi e fa parlare di sé. Non benissimo, però: iniziano a girare strane voci sul suo conto e la gente inizia a evitarlo:
Il fidato amico Basil, allontanatosi anch’esso da Dorian, pensa bene di fare un’ultima opera pia prima di partire per Parigi: cerca l’amico per provare a farlo ritornare in sé: secondo lui, il giovane può ancora riscattarsi e ritrovare l’innocenza perduta. Ma non sa con chi ha a che fare: Dorian, sentendo criticare quello che ha di più caro, cioè il suo ego, attira Basil in soffitta con la scusa di mostrargli il ritratto e lo uccide. Uccidere un uomo non è cosa difficilissima, convivere con il pensiero di aver ucciso è tutt’altra cosa, però. Quella che io chiamo la sindrome di Macbeth colpisce anche Gray, rendendogli la vita davvero difficile. Inoltre, il dipinto gronda sangue e la cosa mette un po’ di inquietudine anche a un demonio come lui che non è nato direttamente dalle viscere dell’inferno. Come risolvere un problema? Con un altro problema. Per sbarazzarsi del corpo, Dorian ricatta Alan Campbell, un altro giovane caduto nelle sue grinfie impietose e la cosa sembra che non sia mai successa. Nessuno ha visto niente, nessuno sa niente. Nessuno, tranne Dorian Gray e Alan Campbell. Che si rincontrano frequentando gli stessi ambienti: questa volta però non si tratta dei scintillanti salotti di qualche duchessa in auge, ma di malfamate fumerie di oppio nei fatiscenti sobborghi di Londra – gli unici posti che offrono l’illusione di dimenticare. Ed è li che Jim Vain, il fratello di Sybil, scopre l’identità di Dorian Gray, che ha cercato per dieci lunghi anni. Le ombre del passato di addensano su Dorian Gray, ma il diavolo ha sempre la fortuna della sua parte: Jim Vain finisce ucciso in un incidente di caccia mentre cerca di avvicinarsi a Gray per vendicare la sorella. Chi ama chi
Chi uccide chi
Finale“Farei di tutto per ritrovare la giovinezza, fuorché ginnastica, alzarmi presto e comportarmi come si deve.” Figuriamoci a condannarsi l’anima, aggiungerei io. Queste sono le parole che, anni dopo, Lord Henry dice a Dorian Gray, mostrandosi per quello che veramente è: uno che parla soltanto, senza credere quello che dice. Ma per Gray è, ovviamente, troppo tardi. D’accordo, prova a iniziare una nuova vita, si vanta persino di aver risparmiato una giovane fanciulla dalla rovina, ma Lord Henry inquadra molto bene la faccenda: il ragazzo è semplicemente alla ricerca di nuove sensazioni. Il quadro lo sa, sa tutto di lui e glielo mostra impietosamente. Dorian Gray non riesce a sopportarlo, deve disfarsene, cancellare ogni traccia del passato! Uccide il quadro, quindi se stesso. ConclusioneEssere o apparire? La difficoltà sembra maggiore nello scegliere di essere, ma il prezzo dell’apparire non viene mai definito in anticipo. Gli aforismi di Lord Henry
Cosa racconta il ritratto di Dorian Gray?Narra di un giovane di bell'aspetto, Dorian Gray, che arriverà a fare della sua bellezza un rito insano. Egli comincia a rendersi conto del privilegio del suo fascino quando Basil Hallward, un pittore (nonché suo amico), gli regala un ritratto da lui dipinto, il quale lo riproduce nel pieno della gioventù.
Come finisce il ritratto di Dorian Grey?Affascinato dal cinico lord Henry Wotton, Dorian si lascia andare a una vita di piaceri senza alcuno scrupolo morale facendo soffrire quanti lo amano. Abbandona la fidanzata Sybil, che morirà suicida, e incapace di accettarne il biasimo uccide lo stesso Basil.
Qual è la lezione morale del Ritratto di Dorian Gray?La vita ha bisogno della bellezza, ma questa non può e non deve essere fine a se stessa, non può elevarsi a scopo unico della morale. Dorian lo sperimenterà sulla propria pelle: è giovane e bello ma saranno proprio queste due caratteristiche a portarlo alla distruzione e alla disperazione.
Chi uccide Basil?Mentre contempla il proprio ritratto, deciso a riconquistare la purezza della sua gioventù, Dorian ha un attacco di rabbia e, con il coltello con cui ha ucciso l'amico Basil, colpisce il quadro per distruggerlo.
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